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COME SI SOGNA (E SI AMA) CON UN CROMOSOMA IN PIÙ

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COME SI SOGNA (E SI AMA) CON UN CROMOSOMA IN PIÙ

Vanityfair.it – Marco è un bel ragazzo. Marco è un atleta. Marco cura molto il suo aspetto. Marco è sicuro di sé e un po’ donnaiolo. Marco vuole riaprire un vecchio cinema e diventare allenatore di nuoto. Marco ha la sindrome di Down, ma questo per lui è solo un dettaglio.

Marco si veste meglio di me, ha un taglio di capelli migliore del mio, nuota più veloce di me. Marco ha anche la sindrome di Down, ma tende a ricordarselo solo quando gli altri glielo ricordano. La sua identità è da un’altra parte: Marco è un atleta, capitano della squadra di nuoto, appassionato di cinema, fratello geloso, maschio vagamente donnaiolo. Quando lo incontro, in un ristorante all’Eur a Roma, insieme a sua sorella Gioia, ho già visto le foto di questo servizio, del quale Marco è protagonista, insieme ai suoi amici, e in qualche modo anche ispiratore e co-creatore. E di persona non è di una virgola diverso o meno sicuro di sé.

La sindrome di Down – causata dalla presenza di 47 cromosomi invece che 46, più precisamente di una terza copia del cromosoma 21, infatti è detta anche trisomia 21 – è una condizione con uno spettro molto ampio di conseguenze. In alcuni casi può causare una disabilità intellettiva grave, che richiede tutto l’aiuto del mondo. Però ci sono persone con la sindrome di Down e che sono diventate politici, musicisti, artisti, imprenditori. Persone come Marco Marzocchi, 33 anni e un diploma scientifico tecnologico, che come tutti vogliono avere un posto nella società, certi giorni litigarci, certi giorni essere pigri, certi altri svegliarsi con la voglia di cambiare il mondo. «La sindrome di Down è una condizione genetica democratica, c’è in tutte le razze, a tutte le latitudini». Anna Contardi, coordinatrice nazionale dell’Associazione italiana persone down, mi fa da guida in cosa è oggi in Italia avere la sindrome di Down (e non essere down, le parole sono importanti, i verbi soprattutto). Fino a pochi decenni fa, in Italia c’erano pochissimi adulti con la sindrome di Down. Negli anni ’40, l’aspettativa di vita era di 12 anni, oggi molte delle complicazioni congenite (cardiache, gastrointestinali, tiroidee) possono essere gestite e l’aspettativa di vita è salita a 62 anni. La conseguenza è che, delle quasi 40 mila persone con questa condizione in Italia, il 60% è composto da adulti. Che si affacciano alla società con necessità, con sogni, con la voglia di esserne parte e il bisogno di essere raccontati in modo diverso. «Almeno la metà di loro ha buone possibilità di inserimento sociale e lavorativo, ma quando la scuola dell’obbligo finisce, lo scenario è ancora troppo confuso». Soltanto il 12% degli adulti lavora, un numero molto più basso di quelli che potrebbero effettivamente farlo. «Fanno gli impiegati, i magazzinieri, gli scaffalisti nelle librerie, e ovunque hanno standard di produttività superiori a quelli medi delle aziende dove lavorano». Karen Gaffney è stata la prima persona con la sindrome di Down a tenere un TED Talk (i TED Talk sono quei discorsi in cui innovatori, filosofi, imprenditori raccontano la propria visione del mondo). Karen ha raccontato il suo primo giorno di scuola. Era il primo non solo per lei, bambina con la sindrome di Down, ma anche per la sua insegnante: «Non sapeva niente della sindrome di Down». L’incontro con l’altro, soprattutto a scuola, non è una passeggiata, ma ce l’hanno fatta: «Lei aveva voglia di insegnare, io avevo voglia di imparare». La maestra si è sposata, si è trasferita in Germania, Karen è andata avanti, è diventata una nuotatrice come Marco (ha attraversato la Manica a nuoto), è andata al college, ha aperto la sua fondazione. Anni dopo, quella maestra le ha scritto: «Sono incinta, aspetto un bambino, avrà la sindrome di Down». Il ginecologo le aveva parlato della possibilità di abortire, ma lei si era ricordata di quella bambina, del suo primo giorno di lavoro, del percorso fatto insieme. E ha portato avanti la gravidanza. «Le nostre vite contano, il nostro domani conta, esiste», dice Karen. La percezione sociale sta cambiando», spiega il dottor Aldo Moretti, direttore scientifico Fondazione Cepim, che lavora alla formazione e all’inserimento delle persone con la sindrome di Down: «Ci sono ancora pregiudizi, ma c’è più conoscenza. Il punto è che essere accettati non basta, molti di quelli che sono diventati adulti lo hanno fatto senza ricevere gli aiuti corretti». Secondo Moretti, il 40% delle persone con la sindrome di Down ha un ritardo abbastanza grave da rendere l’autonomia, parola chiave di questo mondo, quasi impossibile. «Ma gli altri, se educati all’autonomia fin da piccoli, potranno avere un lavoro, andare a vivere da soli, avere una vita affettiva». La malattia geneticamente è la stessa di quarant’anni fa, quando sono state abolite le classi ghetto in Italia, ma stanno cambiando la percezione e le metodologie. «Si dice sempre che a scuola e al lavoro sono precisi, quasi maniacali. Spesso si tende a formarli esasperando questo aspetto, ma è un errore, perché così diventano rigidi nelle loro reazioni, invece la vita è elastica e devono esserlo anche loro. Come per tutti, le loro menti subiscono i condizionamenti dell’ambiente, ma se stimolate hanno capacità di pensiero critico, di ironia e autoironia». Quando chiedo a Karen di spiegarmi come funziona la sua mente, me lo spiega così: «Mi ci vuole più tempo per imparare. A volte mi sforzo di rispondere subito invece di ascoltare davvero. Devo fare più attenzione, è una cosa su cui lavoro costantemente. Il mio apprendimento è sempre visivo», mi scrive. «Se sto studiando un libro di storia, vado su YouTube e cerco un documentario su quel periodo, perché mi aiuta a visualizzare. Se sto leggendo un romanzo, scrivo gli eventi che accadono su una timeline». Karen ha imparato alcune strategie a scuola, altre da sola. È l’evoluzione della metodologia di cui parla Moretti. Come scrive Amy Julia Becker, scrittrice e madre di una bimba con la sindrome di Down: «Senza occhiali molte persone sarebbero considerate disabili, la tecnologia ci permette di vedere quando la biologia ce lo impedisce. E per questi bambini, e per i loro problemi cognitivi, potrebbero esserci nuove soluzioni e diversi approcci didattici. Quella che si chiama disabilità può essere anche definita come una diffidenza che la nostra società non vuole superare». Ogni mente è frutto della sua biologia e degli stimoli che riceve. Marco si illumina quando parla dei viaggi che ha fatto con Gioia e la sua famiglia, della Statua della Libertà e di Atene, che è la sua capitale preferita: «Lì c’è la storia e prima di partire io avevo studiato il greco su YouTube senza dirlo a Gioia, quando siamo arrivati io lo parlavo e lei no». Gioia (che fa la conduttrice e l’attrice) lo porta d’estate a Ibiza, Marco ne apprezza il fuso orario, l’ora ibizenca: «Vuol dire che si va a letto tardi e ci si sveglia tardi, si pranza tardi e si fa tutto tardi». Ma la sorpresa e la scoperta sono sempre in due direzioni, lo vedo da come Gioia ride alle battute del fratello, si fa trascinare dal suo entusiasmo.

È quello che racconta anche Giacomo Mazzariol in Mio fratello rincorre i dinosauri, la storia di quanto quel fratello con la sindrome di Down, Giovanni, gli abbia cambiato e riempito la vita. Dentro c’è la scoperta dei limiti e delle paure di Giovanni, ma anche del talento, delle sorprese, dei gusti, della sua «vita obliqua». Un giorno, Giacomo porta Giovanni a conoscere il suo idolo, il rapper Moreno, e dopo avergli chiesto l’autografo, Giovanni ne firma uno a Moreno: «Pensava fosse uno scambio reciproco». Scrive Giacomo: «La vita con Gio è un continuo viaggio tra gli opposti, tra divertimento e logoramento, azione e riflessione, imprevedibilità e prevedibilità, ingenuità e genialità, ordine e disordine». Marco parteciperà ai Trisome Games di Firenze a luglio. Dopo, lascerà la squadra, sogna di diventarne allenatore, vorrebbe trovare un lavoro: «Basta che mi pagano, per vivere, per sentirmi indipendente». Si prende cura, talvolta con impazienza, delle amiche Federica e Viola. E trabocca di sogni: vuole prendere in gestione un vecchio cinema di Spinaceto chiuso da anni: «Amo il cinema e non posso vederlo rovinato dai vandali. Io ci farei lavorare i ragazzi con un handicap e i miei amici che non hanno lavoro». Oppure mettere a posto e prendere in gestione la piscina di Tarquinia dove ha imparato a nuotare. Non pronuncia mai la parola Down. Quando lo faccio io, mi risponde: «Detesto le persone che mettono etichette ad altre persone, Down, gay, trans o nero. Le persone sono uguali, cambiano solo i gusti e il carattere». Marco, Giovanni, Karen, Viola, Federica: hanno tanti bisogni e una vita complicata. Hanno dovuto combattere per ogni singola cosa che hanno imparato. E hanno tutti un’esigenza: essere trattati come individui. Se non ne avete ancora incontrato uno, e vi dovesse capitare, vi do un consiglio. Chiedetegli: «Cosa ti piace?». Molto probabilmente, vi sorprenderà.

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