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Un’altra vita su Second Life

DiAlgieri

Un’altra vita su Second Life

Come nel film “Avatar”, navigando in rete si dimentica
la disabilità. Purché non si perda il contatto con la realtà

Esattamente come l’ex marine invalido Jake Sully, protagonista di Avatar, il colossal diretto da James Cameron, i disabili possono trovare sul web il loro pianeta Pandora, che in questo caso di chiama Second Life. Uno studio pubblicato sulla rivista Rehabilitation Nursing da un gruppo di ricercatori dell’Università del Wisconsin sottolinea i vantaggi che può trovare in questi mondi virtuali creati sul web chi, nella vita quotidiana, subisce importanti limitazioni.

SECOND LIFE – Per la maggior parte degli utenti, parecchi milioni in tutto il mondo, il programma gratuito e lanciato nel giugno del 2003 dalla società americana Linden Lab è solo un passatempo interattivo e creativo, sempre in grado di rinnovarsi. Basta stare davanti al computer per avere accesso a un mondo virtuale ricco di ambienti e situazioni, dalle più quotidiane e banali alle più avventurose e fantastiche.

Si può scegliere di vivere una giornata tipo in una grande metropoli o un safari in una foresta tropicale. In realtà la partecipazione in remoto è mediata da un avatar, un alter ego che può essere creato a immagine e somiglianza dell’utente, ma a cui si può attribuire, a propria discrezione, anche un’ampia gamma di caratteristiche fisiche, psicologiche e attitudinali. Il disabile può quindi decidere se rappresentare se stesso libero dall’handicap o meno.

LO STUDIO – Second Life offre una possibile, per quanto virtuale, via di fuga da una realtà che limita, mortifica o deprime, e in questo modo può migliorare la qualità della vita. «Per i disabili la vita sul web può diventare una opportunità per superare i limiti imposti dalla propria condizione e compiere azioni e gesti a loro abitualmente preclusi: camminare o danzare, esplorare, fare incontri e comunicare, realizzare progetti, viaggiare e teletrasportarsi. Uno degli aspetti di maggior valore – come sempre trattandosi di un network – è poi quello della socializzazione» commentano Stephanie Stewart e Terry Hansen, entrambi docenti all’Università del Wisconsin, che hanno firmato la ricerca e che, sulla base di queste considerazioni, propongono Second Life come parte integrante dei programmi di riabilitazione.

Secondo il loro progetto il personale sanitario impegnato nel percorso assistenziale ha un ruolo chiave nel presentare alla persona con infermità cronica o in lunga convalescenza questo strumento e nel sottolineare l’opportunità di un miglioramento della qualità della vita e di adattamento emotivo e sociale che esso offre. «Effettivamente, realtà virtuali come Second Life o social network come Facebook o Netlog – per citare i più usati in Italia – consentono alle persone con disabilità di mettere in gioco una rappresentazione diversa di sé, che può svincolarsi dai limiti spesso gravissimi imposti dal deficit – commenta Rossella Bo, psicologa e psicoterapeuta, consigliere delegato di Area onlus, associazione torinese che dal 1982 si prende cura di bambini e ragazzi disabili e delle loro famiglie -.

Ovviamente quello che non può verificarsi è il finale di Avatar, dove il giovane Jake Sully, costretto su una sedia a rotelle, si ricongiunge “carnalmente” con il suo alter ego Na’vi dotato di una straordinaria prestanza fisica. Mi sembra dunque importante che la frequentazione del mondo virtuale da parte delle persone con disabilità avvenga sotto l’egida del gioco e della sperimentazione del pensiero creativo, una posizione cioè che non alimenti pericolose scissioni o negazioni sul piano psichico, le quali finirebbero per causare ai soggetti coinvolti più sofferenze che vantaggi».

Fonte Corriere.it

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