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Autismo, una legge-cornice tanto vaga che non cambia nulla

Roberto Speziale, presidente di Anffas, commenta la legge sull’autismo approvata oggi dalla Camera: «un’occasione perduta»

Con 296 sì e 6 no la Camera ha approvato oggi pomeriggio la proposta di legge “Disposizioni in materia di diagnosi, cura e abilitazione delle persone con disturbi dello spettro autistico e di assistenza alle famiglie”. Il provvedimento torna ora all’esame del Senato, dove ci si aspetta una conferma del testo licenziato oggi.

Per Roberto Speziale, presidente di Anffas, non c’è però molto da festeggiare: «Sappiamo che il testo è frutto di una mediazione e apprezziamo il tentativo di portare maggiore attenzione ai problemi delle persone con autismo, tuttavia è un’enorme occasione perduta.

Cosa cambierà il giorno in cui questa legge sarà in vigore? Purtroppo poco o nulla». Anffas è l’associazione maggiormente rappresentativa delle persone con autismo e delle loro famiglie, ma durante la discussione della proposta di legge in questione non è mai stata chiamata in Parlamento per essere audita: «Forse avremmo disturbato», dice amareggiato Speziale. E spiega che «con la Fish avevamo chiesto che nel testo si parlasse di progetti personalizzati, mentre la legge che è stata approvata è una semplice legge cornice, che non dice nulla e non dà nulla in più, essendo prevista l’invarianza dei costi: ci sono spunti buoni, ma lasciati nell’indeterminatezza. In Italia già è difficile far applicare leggi estremamente specifiche, figuriamoci una legge come questa».

Un altro punto critico per Speziale è il fatto che questa legge è la prima legge sulla disabilità che l’Italia approva dopo la Convenzione Onu: «ma non vi fa alcun riferimento, come non fa riferimento all’articolo 14 della legge 328 che parla di progetto individualizzato, senza il quale non c’è presa in carico globale. Intervento precoce e intervento globale sono i presupposti per avere un miglioramento della presa in carico concreta». Anche dopo la legge quindi ci sarà da lavorare, perché gli interventi precoci e quelli globali entrino nei LEA e nei LEP. Sarà più importante che avere l’autismo nel titolo di una legge.

 

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Una vita ad assistere un malato: la vita del caregiver vale cosi’ poco?

Fonte www.disabili.com Mancano di tutele previdenziali, impegnati senza sosta notte e giorno in un lavoro usurante che ne mina salute fisica e psichica. Ora l’Europa è pronta ad ascoltare i caregiver familiari italiani

Parlano di vittoria i caregiver italiani – e di questo si tratta – riferendosi alla decisione della Commissione Petizioni della Comunità Europea di riconoscere la procedura d’urgenza per la petizione promossa al Parlamento Europeo per il riconoscimento dei diritti umani dei caregiver familiari. Le oltre 30mila firme raccolte (ora arrivate a 40mila) e consegnate a Bruxelles a gennaio per sostenere le ragioni delle persone che sacrificano la loro vita all’assistenza di un familiare non autosufficiente hanno quindi spinto in avanti la petizione promossa dal Coordinamento famiglie disabili gravi e gravissimi che da tempo si spende per vedere riconosciuti i diritti fondamentali.

BYPASSATA L’INDIFFERENZA ITALIANA –  Probabilmente già dopo l’estate i promotori dell’iniziativa saranno convocati a Bruxelles per esporre la loro situazione e soprattutto le loro richieste. E’ così, dunque, che il gruppo ha bypassato l’indifferenza del nostro Paese (molti sono stati gli appelli, caduti nel vuoto), ottenendo invece attenzione dall’Europa, che la ritiene una questione urgente. L’Italia, infatti è uno dei pochi Paesi a mancare ancora di una legislazione che tuteli (da un punto di vista ad esempio previdenziale) o prenda per lo meno in considerazione i diritti di chi assiste continuativamente e in modo costante un familiare con grave disabilità. Va detto che non mancano le proposte di legge  in Italia (l’ultima ferma in Senato dopo il via libera alla Camera nel 2010, per mancanza di coperture finanziarie), ma tutto è ancora fermo.

I CAREGIVER IN EUROPA – Ad Adnkronos, spiega Maria Simona Bellini del Coordinamento famiglie disabili gravi e gravissimi che in tutta Europa i family caregiver hanno una serie di tutele, “persino la Grecia fa di più. In Germania il sistema sanitario-assicurativo dà diritto a chi assiste un familiare disabile a contributi previdenziali garantiti, se dedica all’attività di assistenza più di 14 ore alla settimana, e a una sostituzione domiciliare in caso di malattia. Forme di assicurazione contro gli infortuni e di previdenza sono concesse anche ai caregiver francesi, che in diversi casi hanno diritto pure a un’indennità giornaliera, e a quelli spagnoli, che in caso di interruzione del proprio lavoro mantengono la base contributiva dell’attività interrotta. Anche in paesi con un’economia più debole della nostra le tutele dei caregiver sono maggiori: in Grecia, per esempio, chi decide di dedicarsi alla cura del proprio caro ha diritto al prepensionamento dopo 25 anni di contributi versati”.

UN RISPARMIO PER LO STATO – Riconoscimento dei diritti fondamentali alla salute, al riposo e alla vita sociale sono le richieste di queste persone, che per occuparsi dei congiunti disabili devono sacrificare lavoro, amicizie, tempo libero. La posizione del caregiver familiare è quella di chi vuole continuare a mantenere il proprio caro in casa, fornendogli l’assistenza in un clima famigliare che in un istituto non avrebbe. Di fatto, quindi, il caregiver si sobbarca l’assistenza che altrimenti sarebbe demandata al SSN tramite strutture deputate a farlo. Economicamente parlando, queste famiglie riescono solitamente ad andare avanti con l’invalidità, l’accompagnamento e i contributi di assistenza indiretta che possono essere erogati dai Comuni, ma non basta. Va detto tra l’altro che in questo modo il caregiver stesso non si costruisce una pensione lavorativa, avendo necessariamente abbandonato la propria attività per dedicarsi a un lavoro di cura peraltro usurante sui profili fisico ed emotivo. Il futuro quindi è una incognita su più piani.

CHI E’ IL CAREGIVER – Il caregiver familiare è quasi sempre donna. Rinuncia al lavoro, allo svago, ma anche al parrucchiere, a una passeggiata, a un’ora d’aria – cosa che non si nega neanche ai carcerati. Il suo lavoro non finisce mai: spesso di alza la notte per controllare respirazione, cambiare sondini, cambiare biancheria, perché il lavoro di assistenza non conosce notte, non conosce ore. Di giorno poi c’è il resto: dalla somministrazione di medicine, all’igiene, agli esercizi di fisioterapia, ai cambi di pannolini, cateteri, biancheria. Un calcolo riportato nel dossier dedicato all’argomento nel numero di novembre del periodico di Superabile, dice che un caregiver fornisce assistenza dalle 40 alle 84 ore settimanali. A volte sono affiancate da infermiere professionali: figure necessarie quando c’è bisogno di intervenire in maniera delicata. Ed esse stesse, le caregiver, padroneggiano ormai tecniche e procedure: una sorta di assistenza specializzata alla quale sono giunte dopo anni di pratica sul campo.

SE SIA AMMALA IL CAREGIVER – Una vita in costante apprensione, senza orari, con carico anche fisico di attività, fa del caregiver familiare un lavoro usurante. E’ dimostrato che chi si occupa di assistere con continuità un familiare disabile ha una aspettativa di vita inferiore alla media, dai nove ai 17 anni. Stress, attacchi d’ansia, ma anche contrazioni, osteoporosi, ernie sono i malanni che colpiscono queste persone, che spesso non hanno neanche il tempo di fare una visita dal proprio medico. Cosa succede, quindi, se si ammala il caregiver? L’ipotesi non è così remota; purtroppo sono le famiglie, nel chiuso delle loro case, a vivere questi drammi, ancora soli.

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La disabilità è un concetto in evoluzione

Fonte www.superando.it Si chiama così l’importante percorso formativo promosso da DPI Italia (Disabled People’s International), ENIL Italia (European Independent Living) e FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), cui ci si può iscrivere fino al 25 luglio, che si terrà dal 14 al 18 settembre a Marina di Ascea (Salerno), partendo appunto dalle trasformazioni introdotte sul concetto di disabilità dalla Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità

Realizzazione grafica con il simbolo della carrozzina in corsa rapidaÈ quanto mai chiara ed eloquente la presentazione pubblicata nel bando di partecipazione della Summer School denominata La disabilità è un concetto in evoluzione, percorso di formazione che partirà dalle trasformazioni introdotte sul concetto di disabilità dalla Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, in programma dal 14 al 18 settembre a Marina di Ascea (Salerno) e al quale ci si potrà iscrivere fino al 25 luglio.
Quella stessa presentazione, dunque, ben volentieri riprendiamo integralmente qui di seguito.

«L’evoluzione della visione sulla condizione delle persone con disabilità, culminata con l’approvazione della Convenzione sui Diritti delle Persone con Disabilità delle Nazioni Unite (2006), ha prodotto profonde trasformazioni sia nel linguaggio e nelle concettualizzazioni che nelle modalità di pensare le politiche e di intervenire con gli appropriati sostegni. Questa “rivoluzione copernicana” si riflette ancora poco sia all’interno delle ricerche e degli studi, sia all’interno delle percezioni sociali e politiche. L’approccio basato sul rispetto dei diritti umani, base di tutta la Convenzione, abroga il modello medico della disabilità e riformula le modalità di sostenere i diritti delle persone con disabilità in direzione di processi di non discriminazione e di egualizzazione di opportunità.
La definizione della disabilità, contenuta nella Convenzione, è un elemento essenziale di questa rivoluzione e comporta una riformulazione dell’insieme delle attività connesse alle persone con disabilità: “La disabilità è il risultato dell’interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali ed ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri”.
In questa direzione risulta evidente l’inadeguatezza degli approcci alla base delle attività che si occupano di questo target di popolazione e degli stessi sistemi di welfare disponibili, basati su strumenti e servizi spesso centrati su un modello sanitario e assistenziale, così come degli strumenti di valutazione/accertamento delle condizioni di disabilità, centrati su modelli medico/risarcitori; la riflessione tocca i servizi attualmente disponibili, sovente non centrati sull’inclusione, la pari opportunità, il sostegno appropriato e l’empowerment [crescita dell’autoconsapevolezza, N.d.R.]; la stessa formazione degli operatori del settore andrebbe profondamente modificata ed aggiornata.
Alla base di questa inadeguatezza vi è un approccio culturale ormai superato, centrato su stereotipi che vivono in maniera inerziale all’interno dei vari mondi che interagiscono con le persone con disabilità (il mondo politico e istituzionale; il mondo professionale; le stesse organizzazioni di persone con disabilità e dei loro genitori; il mondo universitario e della ricerca; il mondo della formazione professionale e curriculare; il mondo dei mass media; la società nel suo complesso).
Solo riformulando il concetto di disabilità sulla base del modello proposto dalla Convenzione ONU potrà innescarsi un processo di trasformazione del modo in cui si affronta il tema dei diritti delle persone con disabilità».

Del tutto autorevoli sono i vari partner che hanno dato vita all’iniziativa, vale a dire DPI Italia (Disabled People’s International), ENIL Italia (European Independent Living) e la FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), con la collaborazione scientifica del CeRC, il Centre for Governmentality and Disability Studies “Robert Castel” dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, oltreché con il patrocinio e il contributo del Comune di Ascea e della locale Fondazione Alario per Elea-Velia, e la partecipazione della Direzione Generale Politiche Sociali della Regione Campania.
La Summer School – che verrà attivata con un numero minimo di venticinque partecipanti – si rivolgerà principalmente a soci o collaboratori – possibilmente di età compresa fra i 25 e i 40 anni – della rete delle Associazioni italiane di persone con disabilità e dei loro familiari, ai servizi e agli operatori che lavorano nel campo della disabilità, a studenti e ricercatori universitari.
Le lezioni si svolgeranno presso la sede della citata Fondazione Alario per Elea-Velia e alla formazione d’aula, condotta con metodologia di cooperative learning (“apprendimento cooperativo”), si affiancherà il lavoro di gruppo organizzato attorno a tematiche specifiche.

Ben noti sono anche i nomi dei docenti, ovvero Rita Barbuto, che dirige DPI Italia; Maria Rosaria Duraccio, vicepresidente di ENIL Italia; Carlo Francescutti, coordinatore del Comitato Tecnico Scientifico dell’Osservatorio Nazionale sulla Condizione delle Persone con Disabilità; settembre, a chiusura del corso, si terrà un seminario nazionale organizzato nell’àmbito del Progetto InfoEas su La cooperazione internazionale e le persone con disabilità: i percorsi di empowerment.

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Affettività, sessualità e cerebrolesioni: una ricerca

Fonte www.superando.it È stata la prima esperienza di studio sul tema, in àmbito nazionale ed europeo, quella coordinata dalla Fondazione Don Gnocchi, riguardante la vita affettiva e la sessualità nelle persone colpite da una grave cerebrolesione acquisita e nei loro partner. E i risultati ottenuti potranno certamente consentire di sostenere nel migliore dei modi le famiglie, anche su queste problematiche, in prossimità della dimissione della persona dalla struttura di ricovero e anche dopo il rientro a casa

Due mani intrecciate

Un’interessante e innovativa ricerca, riguardante la vita affettiva e la sessualità nelle persone colpite da una grave cerebrolesione acquisita e nei loro partner, è stata coordinata nei mesi scorsi dalla Fondazione Don Gnocchi e a presentarne i risultati alla fine di maggio a Bruxelles – nel corso di una conferenza internazionale promossa dall’EBIS (European Brain Injury Society), sul tema Sex, Intimacy and Acquired Brain Injury (“Sessualità, intimità e lesioni cerebrali acquisite”) – sono stati la neurologa e neuropsicologa Anna Mazzucchi, coordinatrice della Rete Gravi Cerebrolesioni Acquisite dei Centri della Fondazione Don Gnocchi e il neurologo Antonello D’Amato, appartenente alla medesima Rete.

«Essendo la prima esperienza di studio sul tema in àmbito nazionale ed europeo – spiega Mazzucchi – abbiamo avvertito la responsabilità di coinvolgere le famiglie di persone con grave cerebrolesione acquisita che ruotano intorno alle strutture di riabilitazione della Fondazione Don Gnocchi, ma anche altre strutture riabilitative del Paese e le Associazioni dei familiari con le quali da anni stiamo intessendo un dialogo costruttivo, per condividere problemi e trovare risposte dopo la dimissione dai reparti. Il nostro scopo è stato quello di conoscere quale potesse essere l’effetto di una grave cerebrolesione sulla vita sessuale e sentimentale delle persone, ma anche di conoscere come l’esperienza d’intimità e di relazione si fosse mantenuta, o modificata, o in qualche modo adattata alla nuova situazione, e se e quanto la componente affettiva fosse stata in grado di far superare l’impatto con una realtà relazionale in molti modi diversa».

I risultati dell’indagine, dunque, svolta su un campione italiano di 145 famiglie di persone con grave cerebrolesione acquisita, rivelano innanzitutto che la lesione cerebrale è certamente percepita come un evento perturbatore della vita di coppia, pur mantenendosi comunque alta la stabilità coniugale.
Gli effetti negativi sono percepiti con maggiore intensità dai partner e inoltre, dopo l’evento traumatico, la relazione di coppia si realizza principalmente sulla dimensione affettiva e sentimentale, a scapito di quella erotica e sessuale. Sembra dunque prevalere una relazione affettiva di accudimento, accompagnata da un forte sentimento d’amore, espresso da entrambi i partner. In altre parole, nonostante entrambi valutino come importante la sessualità nel rapporto di coppia, l’intensità del desiderio risulta affievolita dalla presenza di disordini comportamentali e dalla gravità della disabilità, soprattutto cognitiva più che fisica.

«Abbiamo ascoltato tante storie – sottolineano ancora gli Autori della ricerca – che ci hanno colpito per la dedizione del partner, che ci hanno commosso per lo spirito di sacrificio, per l’amore profondo dimostrato, nonostante sacrifici e rinunce. Ci siamo certamente arricchiti e ora che sappiamo di più delle problematiche sessuo-relazionali dei nostri pazienti e delle difficoltà dei loro partner, ora che le famiglie ci guardano per essere aiutate e sostenute nel loro difficile percorso, non possiamo che trovare le modalità giuste per accompagnare le famiglie stesse, informandole per tempo anche su come gestire queste inevitabili modificazioni, sostenendo paziente e partner in un percorso riabilitativo dedicato, da avviare in prossimità della dimissione dalle strutture, ma che necessariamente deve proseguire dopo il rientro a casa».
A tal proposito, il gruppo di lavoro si è già impegnato ad avviare percorsi di continuità assistenziale dopo la dimissione e una prima concreta iniziativa è stata quella di organizzare nel febbraio scorso a Milano, insieme alla SPAN (Società degli Psicologi di Area Neuropsicologica) una giornata formativa dedicata a queste tematiche e alla loro gestione per gli psicologi che operano nelle strutture di riabilitazione per pazienti con gravi cerebrolesioni acquisite.

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RIFORMA TERZO SETTORE, EMENDAMENTI FINO AL 9 LUGLIO

Fonte www.vita.it – Va per le lunghe la discussione (o meglio l’iter, visto che malgrado siano passati oltre due mesi dallo sbarco in commissione affari costituzionali, di ore dedicate al dibattito ce ne sono state davvero poche) della riforma del Terzo settore in Senato. Oggi pomeriggio (24 giugno 2015) la presidente della prima commissione di palazzo Madama, Anna Finocchiaro, ha stabilito nel 9 luglio il termine per la presentazione degli emendamenti. Ovvero fra quindici giorni.

Una scadenza molto lunga, considerato che nelle aspettative del Governo, il passaggio in seconda lettura della norma sarebbe dovuto essere breve «in considerazione dell’ampiezza della discussione andata in scena alla Camera», per usare le parole del sottosegretario al Welfare Luigi Bobba.

Verosimile a questo punto che la Riforma approdi in Aula al Senato non prima della fine di luglio, a ridosso quindi della pausa estiva dei lavori parlamentari. A meno che non si vada ancora più il là. Ci sarà poi bisogno di un altro passaggio alla Camera. Quando? A questo punto difficile ipotizzarlo, anche perché da inizio autunno partirà la partita della legge di Stabilità.

Che la riforma del Terzo settore sia finita su un binario morto? Da oggi questo è più di un sospetto

Per approfondire

Leggi la notizia “La riforma del Terzo Settore approda in Senato”

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SALVARE IL SOCIALE: SPESA PUBBLICA IN PICCHIATA E SQUILIBRATA

Fonte www.censis.it In picchiata le risorse pubbliche per il sociale. L’andamento del Fondo per le politiche sociali, istituito nel 1997 per trasferire risorse aggiuntive agli enti locali e garantire l’offerta di servizi per anziani, persone con disabilità, minori, famiglie in difficoltà, testimonia il progressivo ridimensionamento dell’impegno pubblico sul fronte delle politiche socio-sanitarie e socio-assistenziali.

Le risorse assegnate al Fondo sono passate da 1,6 miliardi di euro nel 2007 a 435,3 milioni nel 2010, per poi scendere a soli 43,7 milioni nel 2012 e infine recuperare in parte negli ultimi due anni fino ai 297,4 milioni del 2014. La riduzione è stata dell’81% nel periodo 2007-2014, gli anni della crisi. Anche il Fondo per la non autosufficienza è passato dai 400 milioni di euro del 2010 al totale annullamento nel 2012, per poi risalire a 350 milioni nell’ultimo anno.

Un divario profondo tra Nord e Sud. Secondo gli ultimi dati disponibili, la spesa sociale dei Comuni supera i 7 miliardi di euro l’anno, pari a 115,7 euro per abitante. Complessivamente, la spesa è destinata per il 38,9% a garantire interventi e servizi, per il 34,4% al funzionamento delle strutture, per il 26,7% ai trasferimenti in denaro.

Le categorie che assorbono la quota maggiore di spesa sono le famiglie e i minori (40%), le persone con disabilità (23,2%), gli anziani (19,8%), i poveri e i senza fissa dimora (7,9%).

Ma le differenze territoriali sono macroscopiche. Si passa dai 282,5 euro per abitante nella Provincia autonoma di Trento ai 25,6 euro della Calabria. Mentre gran parte delle regioni del Centro-Nord si colloca al di sopra della media nazionale, il Sud presenta una spesa media pro-capite che ammonta a meno di un terzo (50,3 euro) di quella del Nord-Est (159,4 euro).

Il Mezzogiorno è l’area del Paese in cui è maggiore il peso dei trasferimenti statali rispetto alle risorse proprie dei Comuni. Al Sud queste ultime coprono meno della metà delle spese per il welfare locale, a fronte di una media nazionale del 62,5%. Di conseguenza, i tagli ai trasferimenti statali hanno un impatto diretto sulla riduzione delle risorse disponibili e quindi dei servizi destinati al sociale a livello locale, ampliando il divario già profondo tra Nord e Sud.

L’universo pulviscolare del non profit.

In questo scenario, sono fondamentali le reti di sostegno informali, con il ruolo centrale della famiglia. Il volontariato e il non profit rappresentano però una componente fondamentale del nostro modello di welfare, in grado di contribuire in modo significativo all’erogazione di servizi e prestazioni sul territorio, garantendo la tenuta sociale rispetto agli impatti della crisi.

Le istituzioni non profit nel nostro Paese sono più di 300.000 e vi operano 5,4 milioni di persone tra lavoratori e volontari. Anche in questo caso la distribuzione territoriale evidenzia profondi divari. Le istituzioni non profit sono 104 ogni 10.000 abitanti in Valle d’Aosta, 100 in Trentino Alto Adige, 82 in Friuli Venezia Giulia, ma solo 41 ogni 10.000 abitanti in Calabria, 40 in Sicilia, 37 in Puglia, 25 in Campania. Le associazioni non riconosciute sono più di 200.000 (il 66,7% del totale), più di 68.000 sono associazioni riconosciute (22,7%), le cooperative sociali sono oltre 11.000 (3,7%), più di 6.000 le fondazioni (2,1%), oltre 14.000 sono istituzioni con altra forma giuridica (4,8%).

Sul totale delle istituzioni non profit, quelle impegnate nel settore sanitario e nell’assistenza sociale sono 36.000 (rappresentano il 12% del totale), precedute da quelle attive nel settore cultura, sport e ricreazione, che da sole rappresentano il 65% del totale. Le cooperative sociali protagoniste del mercato del welfare locale. Consistente è il finanziamento pubblico delle attività non profit nel campo sanitario, dell’assistenza sociale e della protezione civile: 13,5 miliardi di euro, pari al 63% del loro budget complessivo. Il ruolo delle cooperative sociali, che pesano per il 3,7% sul totale delle istituzioni non profit, nel comparto sanitario e dell’assistenza sociale diventa più rilevante, salendo rispettivamente al 10,9% dei soggetti attivi nella sanità e al 17,8% nei servizi sociali.

Queste cooperative sociali sono 5.600 e impiegano 225.000 addetti. E sono in forte crescita. Tra il 2001 e il 2014 si registra un incremento dell’11,8% del sistema cooperativo nell’insieme, superiore all’incremento complessivo delle imprese (+5,1%). E giocano un ruolo predominante nel mercato dei servizi sociali, grazie ai bandi e alle gare di appalto dei soggetti pubblici, anche a fronte della scarsa presenza di imprese private for profit, meno interessate a quelle aree del sociale in cui i margini di profitto sono limitati.

Ma il fatto più problematico è una sorta di informalità diffusa, che rende possibile al soggetto pubblico di trovare il mezzo per risparmiare sulle risorse allocate innescando una concorrenza al ribasso tra le cooperative sociali, senza l’adeguata attenzione alle differenze nelle specializzazioni, nella competenza del personale impiegato, nella qualità dei servizi resi.

L’indagine del Censis è qui disponibile

Per approfondire

Leggi l’articolo “Censis: salvare i fondi per il sociale”

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SCUOLA: IL GOVERNO COMMISSARI LE REGIONI INADEMPIENTI

Fonte www.vita.it – Nonostante i pesanti tagli che gravano sul bilancio dell’Ente, la Provincia di Monza e Brianza si impegna a salvaguardare la continuazione dei servizi fino ad oggi erogati per assicurare il diritto allo studio agli alunni con disabilità. Lo ha scritto nero su bianco in una lettera inviata il 19 giugno alle 430 famiglie con figli con disabilità che hanno appena concluso l’anno scolastico 2014/2015, che sta arrivando alle famiglie in questi giorni.

Per questo nelle prossime settimane la Provincia adotterà anche le “Linee guida per l’attivazione dei servizi in favore di alunni con disabilità per l’a.s. 2015/2016”, dando vita ad un documento unico e coerente in cui ci saranno scritti gli impegni e gli indirizzi del territorio.

«Nonostante la situazione di estrema difficoltà e incertezza che riguarda le Province, riteniamo che l’integrazione scolastica degli studenti con disabilità costituisca un punto di forza del nostro sistema educativo e come tale deve essere difesa», hanno ribadito il Presidente della Provincia Gigi Ponti, il Consigliere delegato al Welfare Concettina Monguzzi e Il Presidente della Conferenza dei Sindaci Maria Antonia Molteni. «In attesa che vengano chiaramente definite funzioni e risorse, da parte nostra confermiamo il massimo impegno affinché la fascia più debole dei nostri studenti possa affrontare con serenità il nuovo anno scolastico».

I servizi di assistenza alla comunicazione, assistenza educativa e trasporto per gli alunni con disabilità sono a rischio per il prossimo anno scolastico per via della situazione confusa che si è venuta a creare a seguito della riordino delle Province previsto dalla “Legge Delrio”. A chi devono essere attribuite le “funzioni non fondamentali” svolte in precedenza dalle Province, tra cui appunto quelle che realizzano il diritto allo studio degli studenti con disabilità? Regioni? Città metropolitane? Comuni?

Fino ad ora pochissimi territori hanno stabilito con precisione a chi passano queste competenze e in ogni caso i fondi assegnati sono inferiori a quelli fino a ieri messi a bilancio dalle Province.

Da qui la mobilitazione delle associazioni. In Lombardia la Ledha con la campagna “Voglio andare a scuola” ha predisposto delle lettere/diffida che i genitori possono inviare alla propria Provincia o alla Città Metropolitana di Milano per chiedere l’attivazione dei servizi di assistenza alla comunicazione, assistenza educativa e trasporto (leggi qui l’ultima notizia sulla questione).

Qualora gli enti territoriali coinvolti non procedano con l’attivazione del servizio richiesto, sarà possibile procedere con un ricorso in tribunale.

I materiali saranno distribuiti anche durante la presentazione del Centro Antidiscriminatorio Franco Bomprezzi: «perché il diritto allo studio non può essere disatteso dalle istituzioni, neppure per ragioni di bilancio», dice Alberto Fontana, presidente di Ledha.

Anche la Fish* ha proposto di denunciare le giunte regionali per interruzione di pubblico servizio, se entro fine agosto non avranno preso decisioni e stanziato fondi per l’assistenza scolastica rivolta agli studenti con disabilità: «Denunciamo profonda confusione: migliaia di famiglie italiane vanno in vacanza senza sapere chi assisterà il prossimo anno i loro figli con disabilità a scuola», ha detto Mario Berardi, presidente nazionale dell’Associazione Italiana Persone Down, annunciando l’adesione alla campagna. «Per questo rivolgiamo un appello al Governo affinché, nel caso in cui le singole Regioni non provvedano entro giugno, voglia avvalersi dei poteri di intervento sostitutivo nei confronti delle regioni inadempienti. Il diritto al trasporto scolastico, all’assistenza scolastica ed all’eliminazione delle barriere architettoniche infatti sono stati considerati dalla Corte Costituzionale livelli essenziali relativi alle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali».

La provincia di Monza Brianza ha fatto un primo passo, ma le province italiane sono 110: quante altre sanno dare alle famiglie una risposta?