Fonte www.pariopportunita.gov.it – Sono state pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale del 30 gennaio 2018 le Linee guida nazionali di indirizzo e orientamento per le Aziende sanitare e le Aziende ospedaliere in tema di soccorso e di assistenza socio-sanitaria alle donne vittime di violenza. Le linee guida, previste dalla legge di Stabilità del 2016, tracciano un percorso per le donne che subiscono violenza affinché sia garantita loro un’adeguata e tempestiva presa in carico, dal triage fino all’accompagnamento e/o orientamento, se consenzienti, ai servizi pubblici e privati dedicati presenti sul territorio.
Delle specifiche, inoltre, vi sono relativamente al rapportarsi con le donne con disabilità: vi è scritto, ad esempio, di “utilizzare una corretta comunicazione con un linguaggio semplice, comprensibile e accessibile anche alle donne con disabilità sensoriale, cognitiva o relazionale” e vi è l’indicazione di “attivare, per donne con disabilità, ove encessario, la presenza di figure di supporto”.
Anche nella sezione dedicata alla formazione professionale degli operatori vi è specificata la necessità di organizzare dei moduli formativi e di aggiornamento, appunto, per fornire una adeguata conoscenza di base del fenomeno della violenza maschile contro le donne in merito a “tutela delle categorie vulnerabili quali donne con disabilità, donne in gravidanza, ecc”.
Il testo delle Linee Guida è disponibile cliccando qui
Fonte www.un.org – Si sta svolgendo in questi giorni, e si chiuderà il 7 febbraio, la cinquantaseiesima sessione della Commissione per lo Sviluppo Sociale (CSocD56) presso la sede delle Nazioni Unite che ha come tema prioritario “Strategie per sradicare la povertà per raggiungere sviluppo sostenibile per tutti” e che tra le tavole rotonde in programma ne vede anche una dedicata alla disabilità dal titolo “Verso uno sviluppo inclusivo, resiliente e sostenibile: un approccio basato sull’evidenza dell’integrazione della disabilità nell’attuazione, monitoraggio e valutazione dell’Agenda 2030”.
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Fonte www.vita.it – Il dopo di noi è cominciato, finalmente. La Lombardia è la prima regione in cui i progetti di vita di persone con disabilità sono stati redatti, valutati, finanziati con le risorse del Fondo nazionale per il dopo di noi e anche avviati. La legge 112/2016 a un anno e mezzo abbondante dalla sua entrata vede così i suoi primi frutti, benché in molte altre zone d’Italia ci siano ritardi e difficoltà oggettive a dare attuazione alla norma.
Un primo tassello, che dice però che “si può fare”. 1.628 progetti di vita In Lombardia, dove gli uffici regionali nei mesi scorsi su 29mila persone con disabilità avevano individuato 3.500 persone come “prioritarie” rispetto alla legge 112/2016, sono state presentate 1.628 domande, una buona risposta per una misura al suo debutto e in più decisamente di rottura rispetto alle misure viste in passato.
Molte istanze già contenevano delle idee progettuali: le valutazioni multidimensionali sono state concluse entro il 31 dicembre e in questo momento i Piani di Zona insieme alle persone con disabilità, ai loro familiari e ai vari fornitori di sostegni stanno costruendo i progetti, che partiranno appena le risorse verranno erogate. Alcuni progetti anzi sono già partiti e con le risorse della legge 112 potranno consolidarsi.
Al cuore della legge sul dopo di noi c’è il desiderio di sostenere le persone con disabilità in percorsi di autonomia abitativa, affinché possano decidere autonomamente dove, come e con chi vivere la loro vita adulta, in maniera gradualmente indipendente dai genitori, in una casa che sia una vera casa e non necessariamente un istituto o un servizio speciale. Delle 1.628 domande presentate in Lombardia, 86 chiedono un contributo per la ristrutturazione di casa, 113 per l’affitto, 114 per un pronto intervento. 275 domande riguardano invece un sostegno alla residenzialità, il cuore innovativo della legge 112/2016: per 130 persone si parla di un gruppo appartamento sostenuto da un ente gestore; per 57 di un gruppo appartamento autogestito, per 50 persone di housing e co-housing, mentre 38 progetti devono ancora essere meglio definiti nella tipologia dell’abitare.
Sono 275 progetti di vita che consentiranno a 275 persone con disabilità di vivere la loro vita, in un appartamento, come tutti: alcuni progetti vanno a consolidare percorsi già avviati, altri sono nuovi.
Costituiscono invece a tutti gli effetti una novità i 1.239 percorsi di accompagnamento per cui è stata presentata domanda. Si tratta di una novità in quanto con le risorse della legge 112/2016 questi progetti dovranno promuovere il distacco e l’emancipazione dei figli dai genitori.
«Significa che 1.239 persone con grave disabilità, che nella maggior parte dei casi oggi frequentano verosimilmente un servizio diurno, hanno detto, insieme alle loro famiglie, “proviamo a sperimentare il distacco dai genitori”; proviamo a costruire il dopo di noi durante noi. Sono persone e famiglie che non si sono fermate ad aspettare l’arrivo di un posto letto in un servizio residenziale ma hanno avuto il coraggio di fare un passo avanti», spiega Marco Bollani, direttore della cooperativa sociale Come NOI di Mortara (PV), tecnico fiduciario della Fondazione Nazionale Anffas Dopo di NOI e consigliere regionale di Federsolidarietà Confcooperative.
La Come NOI ha avviato già nel 2013 un progetto “pilota” che aveva anticipato il dettato normativo della legge 112, il Progetto A Casa MIA, che è stato esteso nel 2017 e che ha generato altre esperienze innovative sullo stesso modello, attraverso una rete territoriale in via di strutturazione, coordinata dalla stessa cooperativa Come NOI.
Ma 275 persone con disabilità che andranno “a vivere da sole” e 1.239 che ci si avvicineranno gradualmente, in Lombardia, sono tanti o sono pochi?
«Sono sicuramente pochi rispetto al bisogno complessivo di realizzare percorsi di vita adulta per le persone con disabilità ma sono oggettivamente tanti per promuovere un nuovo modello di presa in carico come quello ipotizzato dalla legge 112/2016», afferma Bollani. «Ma soprattutto sono un segnale davvero importante di spinta e di innovazione da parte delle famiglie, delle persone con disabilità e di chi già le sostiene, che va assunto e accolto fino in fondo». I sogni sono per i coraggiosi «I sogni sono fatti per le persone coraggiose. Per tutti gli altri, ci sono i cassetti»: hanno messo questa frase sulla pagina Facebook dell’Associazione Un nuovo dono: si tratta di un’associazione di genitori che in provincia di Pavia stanno lavorando per realizzare un progetto di convivenza per cinque ragazzi con disabilità gravissima, che oggi vivono in famiglia. Andranno in un appartamento proprio di fianco al Duomo di Pavia, di proprietà di una delle famiglie, messo a disposizione dell’Associazione per il progetto di co-abitazione.
Le famiglie assumeranno gli assistenti personali e la cooperativa sociale che oggi gestisce il centro diurno frequentato dalla maggior parte dei futuri coinquilini supporterà il progetto fornendo un supporto educativo e pedagogico, supportata a sua volta da un’altra cooperativa sociale del territorio che ha già sperimentato la funzione di case manager.
«Cosa c’è di bello in questo progetto? La rete. C’è l’associazione di genitori Un Nuovo Dono insieme alla Cooperativa Sociale Solidarietà e Servizi di Busto Arsizio, entrambe supportate dalla cooperativa sociale Anffas Come NOI di Mortara», spiega Bollani. «Questo certifica il fatto che per fare bene il dopo di noi, ogni realtà deve uscire dal proprio “orticello”, per lavorare insieme: ciascuno dei soggetti citati – le famiglie ma anche le realtà associative e gestionali – preso singolarmente non sarebbe riuscito a realizzare il “sogno” di un progetto di co-abitazione. Ma lavorando insieme e investendo ciascuno qualcosa ben oltre il loro mandato, ce l’hanno fatta».
E allora tornando alla domanda se sia tanto o poco quello che si è mosso sui territori lombardi in risposta al primo appello legato alla legge sul dopo di noi, per Bollani si tratta già di un avvio concreto e reale di un modello differente.
«In provincia di Pavia, il territorio che conosco meglio, questa legge nel suo primo anno sosterrà 15 progetti di vita: 15 persone che andranno a vivere in tre appartamenti, tutti e tre messi a disposizione dai familiari. Se immaginiamo che nascano tre appartamenti in ogni provincia d’Italia, è già un nuovo modello, è già una alternativa all’istituzionalizzazione. Inoltre in provincia di Pavia ci sono 66 famiglie che faranno percorsi di avviamento al dopo di noi, che orienteranno altre famiglie a muoversi nella stessa direzione, ponendo le basi per progettare altre convivenze in appartamento. Il cambiamento è partito, quello che inizialmente abbiamo costruito come un sentiero sta diventando una strada».
Un altro progetto ancora, a Voghera – curato da Fondazione Anffas Dopo di Noi di Voghera, sostenuto anch’esso dalla cooperativa sociale che gestisce il centro diurno (Coop. Soc. Marta di Sannazzaro) – prevede il recupero di una struttura con più di cinque posti, dove verranno abbinati in maniera originale un appartamento per cinque persone (già attivo), mentre altre cinque persone faranno avviamento all’autonomia, dopo un primo progetto sperimentale di avviamento anch’esso seguito dalla Come NOI.
«Occorre sottolineare che questo “movimento” in provincia di Pavia è stato sostenuto e coltivato da un investimento della Fondazione Comunitaria della Provincia di Pavia, che nel 2017 ha promosso un bando specifico a supporto dell’attuazione della legge 112/2016, finanziando interventi strutturali e di ammodernamento ma anche interventi formativi come il progetto di formazione per genitori svolto da Anffas Pavia attraverso il Supporto della Come NOI. Un passo fondamentale per informare, formare, preparare le famiglie che hanno bisogno di essere accompagnate non solo sul piano pedagogico, ma anche per assumere fino in fondo il ruolo di attori progettuali che co-progettano i progetti di vita dei figli insieme agli abituali fornitori di sostegni, associazioni, cooperative sociali, fondazioni».
Punti di forza e criticità
Quindi l’esperienza della Lombardia, che è riuscita a partire con l’operatività della legge, cosa insegna?
Marco Bollani vede quattro punti di forza e quattro punti critici. «Laddove, come in Lombardia, l’attuazione della norma è stata realizzata attraverso una concertazione decentrata inter-istituzionale fra Regione, Comuni, ambiti e con il coinvolgimento del Terzo settore sia a livello regionale sia a livello territoriale, l’applicazione della norma è riuscita ad intercettare i bisogni delle persone ed anche gli investimenti di risorse private. Basti pensare che dei 19 percorsi di convivenza in gruppo appartamento della Provincia di Pavia, 15 si realizzano all’interno di abitazioni messe a disposizione dalle famiglie degli interessati, con 3 appartamenti di proprietà degli utenti», sottolinea Bollani. Punto secondo, «determinante ritengo sia stata l’azione di Regione Lombardia nel concertare il piano attuativo con le realtà del Terzo settore e poi disegnare con gli enti locali un piano operativo condiviso, individuando scadenze certe ed obblighi attuativi stringenti pur lasciando agli stessi ambiti ampi spazi di necessaria discrezionalità rispetto all’allocazione delle risorse. In pratica Regione Lombardia ha costruito un’impalcatura applicativa chiara con la possibilità di ogni territorio di adattarla alle domande e alle necessità riscontrate in ambito locale». Infine, «là dove il territorio, coordinato dalle Cabine di Regia ATS ha effettivamente avviato una concertazione sollecita con il mondo associativo e del Terzo settore e probabilmente anche là dove il mondo dell’associazionismo e del Terzo settore aveva svolto un lavoro di investimento informativo durante l’iter di attuazione della legge, sono emerse diverse istanze progettuali anche in tempi molto ristretti, anche con un cospicuo investimento di risorse private da parte delle famiglie. Dove il Terzo settore è stato capace di fare sintesi tra le diverse posizioni in campo tra il mondo della cooperazione sociale e dell’associazionismo, questo ha molto aiutato le istituzioni».
Gli elementi di criticità invece sono stati «un tempo di attuazione a scadenze troppo ristrette, che ha costretto tutti gli attori a correre per presentare le prime istanze. Forse sarebbe stato più utile avere più tempo per le valutazioni multidimensionali».
Anche perché il nuovo approccio disegnato dalla norma ha costretto le équipe multi specialistiche ad acquisire in breve tempo i riferimenti metodologici per giungere preparate alla valutazione delle istanze presentate: «da questo punto di vista occorre segnalare l’importanza di tutti i percorsi formativi e di approfondimento messi in atto dalle ATS, dagli ambiti e dalle realtà consortili che hanno dovuto compiere uno sforzo formativo consistente e concentrato in poco tempo per istruire gli operatori impegnati nelle valutazioni multidimensionali», evidenzia Bollani. «In questo modo la difficoltà da parte di tutti gli attori coinvolti a comprendere il cambio di paradigma della norma, si è tramutata in un approfondimento sulla nuova prospettiva di intervento, che sposta l’asse dell’azione di sostegno dalla realizzazione di un servizio alla costruzione di un progetto di vita. Le novità più importanti in tal senso hanno riguardato e tutt’ora riguardano il coinvolgimento della la persona ed i suoi familiari attraverso un’istanza di progetto individuale ai sensi dell’art.14 Legge 328; la definizione di un budget di progetto e l’attivazione di una figura garante dell’intervento nella persona e nel ruolo del case manager».
E siccome il quadro di applicazione della norma è decisamente innovativo, dalle difficoltà appena evidenziate derivano in particolare «oggettive difficoltà ad accogliere istanze provenienti da persone con elevate necessità di sostegno, a fronte della difficoltà degli operatori e delle istituzioni di realizzare progetti di vita e di emancipazione dalle famiglie di origine commisurati ai bisogni effettivi di sostegno e non a caratteristiche standard di unità d’offerta dedicate».
Anche a questi elementi di criticità, conclude Bollani, «molti territori hanno tuttavia saputo rispondere con un lavoro di rete molto fitto, coinvolgendo enti del Terzo settore gestori dei servizi e mondo associativo e attivando modalità operative sperimentali ed in parte inedite. Non solo Lombardia E il resto d’Italia? Anche là dove i piani regionali non sono ancora operativi, alcune famiglie e associazioni sono riuscite comunque a far partire dei gruppi appartamento nuovi, secondo il dettato della legge suppure ancora senza il suo finanziamento. Due progetti in tal senso emblematici sono “Un amore di casa” di Anffas Catania e la “Casa Anffas” di Ragusa, due esperienze che operano in rete, entrambe partite anche grazie ad appartamenti messi a disposizione dai famigliari. Ed è proprio a queste esperienze pilota che oggi le istituzioni possono oggi far riferimento per disegnare l’applicazione attuativa della norma, valorizzando progetti nati sussidiariamente dall’iniziativa dei genitori e delle loro associazioni di riferimento.
«In estrema sintesi», conclude Bollani, «fare rete tra pubblico e privato, sostenendo le spinte progettuali dei familiari, costituisce l’approccio vincente per trasformare l’attuazione della legge 112/2016 in una nuova impresa sociale passando dalle parole della legge ai fatti dei nuovi progetti di vita».
Fonte Gruppo CRC* – La legge di bilancio, con la programmazione e l’allocazione delle risorse triennale, è una dichiarazione d’intenti, ed è anche strumento chiave della politica economica. Analizzando le scelte economiche e le misure espresse nei quasi 1200 commi della legge di Bilancio 2018, possiamo anche analizzare l’impatto sulle politiche sul l’infanzia dal punto di vista dei fondi destinati a sostenere i genitori, i bambini, gli adolescenti.
Orientare risorse economiche per contrastare le povertà minorili e per garantire a tutti i bambini diritti e opportunità educative, significa anche pensare allo sviluppo e al futuro del paese. A valle di queste scelte, peraltro, nel campo delle politiche che coinvolgono i minori, l’Italia è penalizzata da un modello di governance in cui i diversi centri di decisione e le diverse sedi istituzionali sembrano muoversi “in ordine sparso”.
Nella legge di bilancio 2018 – insieme alle riforme e ad alcune leggi approvate in questa legislatura – emerge un’attenzione per l’infanzia, per la scuola, per sostenere la natalità e rispetto agli anni passati queste ‘aree di intervento’ hanno beneficiato di un rilievo maggiore. Per la prima volta, nel 2018, l’Italia attuerà una misura di contrasto alla povertà, destinando per il 2018 2 miliardi di euro; molte risorse sono state destinate all’edilizia scolastica (oltre a quelle già in campo, sono stanziati ulteriori 50 milioni per scuole innovative e 300 milioni di ‘spazi finanziari’ ai Comuni da spendere per l’edilizia scolastica), per colmare ritardi decennali, e diverse risorse sono impegnate per sostenere le nascite. Nel 2017, è stata approvata e definita la riforma che istituisce un nuovo sistema integrato 0-6 anni, che ha anche il merito di aver sensibilizzato istituzioni e cittadini sull’importanza di garantire servizi socio-educativi a tutti i bambini sin dalla primissima infanzia.
Tuttavia, un’analisi più approfondita e di confronto tra le risorse destinate alle diverse misure evidenzia alcune criticità e incoerenze.
Talvolta queste sono semplicemente frutto dei rigidi vincoli di bilancio cui l’Italia è sottoposta, altre volte frutto di scelte politiche disallineate, che non trovano una sintesi coerente.
Prendiamo alcuni esempi significativi. Partiamo dallo sforzo finanziario mirato ad incoraggiare la natalità: il bonus bebè di 80 o 160 euro al mese, istituito per un triennio nel 2015, è stato prorogato anche per i nati o adottati nel 2018, ma solo per il primo anno di vita, per una spesa stimata di 185 milioni. Considerando che il beneficio per i nati nel 2015, 2016, 2017 era triennale, quest’anno la spesa potrebbe raggiungere 1 miliardo 200 milioni. Al bonus bebè, destinato alle famiglie con redditi al di sotto della soglia di 25.000 euro di Isee, raddoppiato in caso di Isee fino a 7000 euro, si sovrappone un altro bonus nascita introdotto dalla passata legge di stabilità, “a decorrere dal 1° gennaio 2017”, 800 euro una tantum per tutte le mamme dal settimo mese di gravidanza senza limiti di reddito, per una spesa stimata di 392 milioni l’anno.
Ci sono poi gli assegni di maternità – circa 339 euro mensili per un massimo di 5 mesi – di cui possono usufruire le mamme lavoratrici, anche autonome o precarie, licenziate, dimesse o in disoccupazione, che costano complessivamente 230 milioni annui. Un altro bonus per sostenere i neogenitori è quello per pagare la retta degli asili nido, fino a 1000 euro per 3 anni, stabilizzato dalla legge di stabilità 2017, per una spesa stimata di 250 milioni. Altri 50 milioni sono destinati al voucher baby sitter per le neomamme che rientrano al lavoro rinunciando al congedo parentale (600 euro mensili per 6 mesi al massimo).
Bisogna riconoscere che queste misure a carattere universale e diretto, ‘leggere’ dal punto di vista amministrativo, possono aiutare i neogenitori nei primissimi mesi a sostegno della natalità. Ma non rappresentano purtroppo un disegno complessivo organico di sostegno alla prima infanzia e alle famiglie più fragili con bambini piccoli. E le risorse in campo sono sproporzionate: i bonus descritti avranno un costo complessivo per il 2018 di circa 2 miliardi 120 milioni, mentre alla nuova importante riforma per il riequilibrio territoriale e l’istituzione di un sistema educativo 0-6 anni sono destinati 239 milioni e al congedo obbligatorio di paternità solo 40 milioni (infatti è di soli 4 giorni).
Anche l’attenzione verso la cultura segnala un maggiore impegno verso il futuro e lo sviluppo dei cittadini. Tra la varie misure inserite nella legge di bilancio si segnalano: 290 milioni il costo del bonus cultura per i 18enni, 1 milione stanziato per le biblioteche scolastiche, 3 milioni per sostenere il libro e la lettura. L’auspicio è che anche su questo tema si vada verso una strategia che preveda interventi strutturali e risorse consistenti, nel quadro di una strategia complessiva di promozione della cultura quale strumento fondamentale per contrastare la povertà educativa.
*Di cui Anffas Onlus è parte
Per leggere il comunicato stampa di Anffas Onlus sulla Legge di Bilancio clicca qui
Fonte www.redattoresociale.it – Vite indegne di essere vissute, nel delirante piano di Hitler e dei gerarchi nazisti. Tra le tante, quelle delle persone con disabilità Storpi, ciechi, sordi, soprattutto i folli: tutti destinati all’annientamento, in quella operazione che fu chiamata “Aktion T4”: un programma di eugenetica con il quale si stima che si siano soppresse tra le 100mila e le 200mila persone. Si sterilizzavano le persone con disabilità e si uccideva in primis – sotto l’attenta supervisione medica – chi aveva malattie genetiche, i malati inguaribili e le persone con disabilità mentali.
Il nome di questa specifica operazione di sterminio, T4, è l’abbreviazione di “Tiergartenstrasse 4”, la via di Berlino dove era situato il quartier generale dell’ente pubblico nazista per la salute e l’assistenza sociale. La designazione Aktion T4 non è nei documenti dell’epoca ma, secondo alcune fonti letterarie, i nazisti usavano il nome in codice Eu-Aktion o E-Aktion. E “Programma di eutanasia” è la denominazione utilizzata dai giudici durante il processo di Norimberga.
Nel Mein Kampf (scritto mentre il futuro dittatore era in carcere per il fallito tentativo di colpo di Stato a Monaco di Baviera nel 1923) Hitler esprime chiaramente i suoi obiettivi di “selezione”: “Chi non è sano e degno di corpo e di spirito, non ha diritto di perpetuare le sue sofferenze nel corpo del suo bambino. Qui lo Stato nazionale deve fornire un enorme lavoro educativo, che un giorno apparirà quale un’opera grandiosa, più grandiosa delle più vittoriose guerre della nostra epoca borghese”.
Il massacro dei bambini e degli adulti con disabilità, portato avanti da medici, è passato alla storia per essere stato l’unico crimine che il regime decise di sospendere sotto le pressioni dell’opinione pubblica. Sospensione più di facciata che effettiva, visto che, come ricorda la voce Aktion T4 della versione italiana di Wikipedia, l’ultimo bimbo soppresso fu Richard Jenne, 4 anni, ucciso il 29 maggio 1945, 21 giorni dopo la fine della guerra in Europa. Tuttavia il processo venne, se non fermato, sicuramente rallentato dalle pressioni della Chiesa cattolica e dalla protesta che montava nel popolo tedesco per la strage degli innocenti.
L’Aktion T4 portò dunque alle estreme conseguenze i concetti di igiene razziale, eutanasia ed eugenetica che tra le due guerre non furono affatto una prerogativa della sola Germania. Come fa notare Ian Kershaw, il principale biografo di Hitler, nel saggio ‘All’inferno e ritorno’ pubblicato in Italia da Laterza, l’eugenetica derivava dal darwinismo sociale ed era considerata una scienza progressista ben prima della Grande Guerra, con estimatori del calibro dell’economista John Maynard Keynes, degli scrittori H.G. Wells e D.H Lawrence e del commediografo George Bernard Shaw.
Si pensava che, selezionando gli esemplari di razza umana, si sarebbero eliminate, scrive Kershaw, “le caratteristiche che producevano la criminalità, l’alcolismo, la prostituzione e le altre forme di comportamento deviante”. Come ricordano Silvia Morosi e Paolo Rastelli sul blog Poche storie, “quando l’eugenetica che auspicava l’eliminazione degli ‘inadatti’ si incrociò con il razzismo e la ‘purezza di sangue’ predicate dal nazismo, si creò una miscela esplosiva in cui maturarono i peggiori eccessi”.
Due furono gli elementi nuovi che contribuirono portare all’estremo la situazione. Prima di tutto le enormi perdite di uomini giovani e vigorosi durante la Grande guerra, (mentre i deboli e i malati erano più o meno sopravvissuti) fecero temere un peggioramento genetico della popolazione cui era considerato indispensabile porre rimedio. E poi la Grande depressione degli Anni Trenta, che ridusse di molto le risorse pubbliche da destinare all’assistenza delle persone con disabilità.
Così – come messo in luce da Morosi e Rastelli -, uno dei primi atti del nazismo trionfante, mentre si procedeva alla demolizione della democrazia e alla persecuzione ed eliminazione degli avversari politici, fu la decisione di migliorare la razza attraverso la sterilizzazione coatta di tutti le persone con disabilità psichica.
La prima legge in proposito, promulgata nel luglio del 1933, riguardava “le persone affette da una serie di malattie ereditarie – o supposte tali – tra le quali schizofrenia, epilessia, cecità, sordità, corea di Huntington e ritardo mentale”, nonché gli alcolisti cronici e numerose prostitute. Nel periodo di vigore pieno della legge, più o meno fino al 1939, si calcola siano state sterilizzate tra le 200 mila (secondo Robert Jay Lifton, autore del libro ‘I medici nazisti’) e le 350 mila persone.
Il processo prevedeva il censimento, chiesto a ospedali, case d’infanzia, case di riposo per anziani e sanatori, di “tutti i pazienti istituzionalizzati da cinque o più anni, i “pazzi criminali”, i “non-ariani” e coloro ai quali era stata diagnosticata una qualsiasi malattia riportata in un’apposita lista”.
“Vite indegne di vita” come Hitler li chiamava. Questa lista comprendeva schizofrenia, epilessia, corea di Huntington, gravi forme di sifilide, demenza senile, paralisi, encefalite e, in generale, “condizioni neurologiche terminali”. Lo sterminio, attuato prima con iniezioni letali e poi con il sistema più veloce dell’avvelenamento con monossido di carbonio , fece un numero di vittime stimato tra le 75 e le 100 mila fino all’agosto del 1941, quando venne ufficialmente sospeso (la cifra non comprende le persone con disabilità non tedeschi uccisi nei territori occupati dai tedeschi nel corso della guerra). Tuttavia le uccisioni continuarono – come si ricorda su ‘Poche storie’ – e andarono poi a confluire nel più grande programma di sterminio razziale degli ebrei e degli altri “esseri inferiori”, al quale venne anche applicata l’esperienza maturata con l’uso del gas asfissiante. E i bambini? Tra i bambini, le vittime furono circa 5 mila tra il 1938 e il 1941, anche in questo caso con il sistema dell’iniezione letale.
Gli ospedali ricevettero l’ordine di segnalare i piccoli “di età inferiore ai tre anni nei quali sia sospetta una delle seguenti gravi malattie ereditarie: idiozia e sindrome di Down (specialmente se associato a cecità o sordità); macrocefalia; idrocefalia; malformazioni di ogni genere specialmente agli arti, la testa e la colonna vertebrale; inoltre le paralisi, incluse le condizioni spastiche”. I piccoli venivano sottratti ai genitori con la scusa del trasferimento in “centri pediatrici speciali” dove avrebbero ricevuto cure migliori e dove invece venivano uccisi, sezionati a scopo “scientifico” e poi cremati. La causa ufficiale della morte era “polmonite”.
La preparazione culturale del terreno. Tutti questi programmi di sterminio erano stati preceduti, nel periodo prima della guerra, da un’intensa opera di propaganda nelle scuole e nelle organizzazioni giovanili del partito nazista, nonché tramite la diffusione di film, poster, libri e opuscoli tesi a suggerire la necessità della selezione genetica e dell’eliminazione dei disabili per evitare loro altre sofferenze e risparmiare denaro a beneficio del resto della popolazione.
Fonte www.un.org – È disponibile la nuova pubblicazione della Divisione Sviluppo e Politiche Sociali delle Nazioni Unite dal titolo “Nazioni Unite e Disabilità: 70 anni di lavoro verso un mondo inclusivo”. Questa pubblicazione mira a fornire una panoramica del lavoro delle Nazioni Unite, in particolare del Segretariato, per le persone con disabilità dall’inizio della loro organizzazione nel 1945, al presente, evidenziando i principali incontri, i trattati sui diritti umani e le pietre miliari che l’ONU ha raggiunto nella sua promozione per i diritti delle persone con disabilità.
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Fonte www.edf-feph.org – Il 24 gennaio 2018 il comitato esecutivo dell’EDF – European Disability Forum, si è incontrato con l’ufficio dell’Intergruppo Disabilità del Parlamento Europeo per discutere delle priorità e dele sfide comuni per il 2018.
Tra gli argomenti affrontati vi sono:
– il ruolo del Parlamento europeo nel seguito delle osservazioni conclusive delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità e la relazione che il Parlamento europeo sta preparando
– un piano per dichiarare il 2021 come il prossimo Anno europeo delle persone con disabilità
– la European Disability Strategy 2020-2030
– gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibili
– il Pilastro Sociale Europeo
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