Fonte www.edscuola.eu – La domanda è la solita e serpeggia nell’aria da anni, senza trovare risposte univoche, ma perdendosi nel ginepraio di leggi, leggine e interpretazioni giurisprudenziali: l’insegnante di sostegno può essere utilizzato per svolgere altro tipo di funzione se non quelle strettamente connesse al progetto d’integrazione? Come deve essere considerato tale utilizzo, qualora riduca anche in minima parte l’efficacia di tale progetto?
Certo l’assegnazione delle supplenze ai docenti di sostegno è un problema molto sentito e sul quale non è sempre facile fare chiarezza, in quanto la normativa è tutt’altro che chiara e univoca. E spesso viene invocata dalla parti in causa per sostenere gli interessi ora dell’una ora dell’altra. L’unico punto fermo è che, in presenza dell’alunno con disabilità, mai il docente di sostegno può essere utilizzato per la sostituzione di un collega assente.
Infatti, all’art.13 comma 6, la Legge 104/92 dispone chiaramente che “gli insegnanti di sostegno assumono la contitolarità delle sezioni e delle classi in cui operano, partecipando alla programmazione educativa e didattica e alla elaborazione e verifica delle attività di competenza dei consigli di interclasse, dei consigli di classe e dei collegi dei docenti” Inoltre ai sensi dell’art. 315/5 del D.Lgs. 297/1994, art. 15/10 dell’O.M. n. 90/2001 e artt. 2/5 e 4/1 del D.P.R. 122/2009, è a pieno titolo docente della classe e quindi non solo dell’allievo con disabilità a lui affidato: egli è dunque contitolare della classe e compresente durante le attività didattiche per effetto della sua particolare funzione di supporto alla classe del disabile di riferimento e la sua funzione non viene meno anche quando è assente il docente curricolare.
Non a caso il MIUR nelle Linee guida sull’integrazione scolastica degli alunni con disabilità ha precisato: “(…) l’insegnante per le attività di sostegno non può essere utilizzato per svolgere altro tipo di funzioni se non quelle strettamente connesse al progetto d’integrazione, qualora tale diverso utilizzo riduca anche in minima parte l’efficacia di detto progetto. Tale indicazione è stata ribadita dalla Nota ministeriale n. 9839 del 08/11/2010 che richiama l’attenzione “sull’opportunità di non ricorrere alla sostituzione dei docenti assenti con personale in servizio su posti di sostegno, salvo casi eccezionali non altrimenti risolvibili”.
E quando l’alunno con disabilità è assente? L’orientamento adottato in alcune scuole o USR più attenti al problema è infatti quello di consentire supplenze ai docenti di sostegno in orario sulla classe solo quando l’alunno con disabilità è assente. Qualora sia prevista una specifica attività didattica con la classe, dove è necessaria la compresenza del docente di sostegno, anche in assenza dell’alunno con disabilità, è opportuno farlo presente al Dirigente Scolastico (responsabile per l’assegnazione della supplenza) affinchè provveda a individuare altro personale docente in servizio. Quando l’alunno disabile è assente, dunque, l’interpretazione della norma si biforca sostanzialmente in due direzioni opposte.
1. La norma che vieta l’utilizzo del docente di sostegno nelle supplenze vale solo se l’alunno con disabilità è presente a scuola. Quando invece è assente, deve ritenersi che l’insegnante per le attività di sostegno rimanga a disposizione della comunità scolastica e possa essere utilizzato per supplenze ovunque, come accade per tutti i docenti che hanno ore a disposizione. Né è legittimo, sostenere che, essendo egli docente in una classe, anche quando manchi l’alunno con disabilità debba rimanere a disposizione solo di quella classe; infatti il docente, in caso di assenza dell’alunno per la cui integrazione è stato nominato, si trova in condizioni simili a quelle di un docente curriculare quando tutta la sua classe sia assente (p. es. per una gita) e quindi a disposizione di tutta la scuola.
2. L’insegnante di sostegno, docente contitolare della classe, in caso di sia di presenza sia di assenza dell’alunno con disabilità, non può essere impegnato in supplenze, in caso contrario si limiterebbe il diritto allo studio dell’alunno con disabilità sancito dalla legge 104 e si violerebbe il principio di contitolarità innanzi citato. Pertanto, in caso di assenza dell’alunno, l’insegnante di sostegno dovrà rimanere nella classe in cui è contitolare. Molti dirigenti si orientano così: solo nel caso sia assente il docente della classe nell’ora della contitolarità, il docente di sostegno è individuato prioritariamente per la sostituzione, a patto che ciò non arrechi danno alla situazione dell’alunno con disabilità e della classe
Se è assente l’insegnante curricolare, che condivide la stessa classe, in base al principio della contitolarità dell’insegnante di sostegno (art 13.b6L.104/92), non si parla nemmeno di supplenza, ma di diversa organizzazione dell’attività didattica. Anche questa situazione va comunque contenuta in un intervallo temporale ragionevole per evitare pesanti ricadute sulla qualità dell’integrazione scolastica dell’alunno con disabilità. Naturalmente ogni situazione va valutata singolarmente, ma principio guida dovrà essere il buon senso.
14 ottobre 2014
Riassumendo: il docente di sostegno non dovrà essere utilizzato per la sostituzione dei colleghi assenti, né in presenza né in assenza dell’alunno disabile, a meno che non ricorrano situazioni di particolare urgenza, nelle quali può essere richiesta la sua volontaria disponibilità. Ciò, è ovvio, deve avere il carattere della eccezionalità e non può e non deve diventare una regola, Il docente di sostegno resterà nella propria classe qualora sia assente il collega di compresenza, organizzando in modo differente il lavoro di integrazione. Sarà possibile contravvenire a questa regola nei casi di particolare gravità, individuati come tali all’interno dei consigli di classe.
Si tratta di quei casi nei quali l’alunno con handicap ha bisogni che non consentono al docente di dedicarsi all’intera classe. Resta un criterio imprescindibile: la necessità di condivisione degli sforzi che orientano la comunità scolastica a un lavoro sereno e proficuo per condurre gli studenti al più alto grado di successo formativo.
Fonte www.superando.it – In occasione della XII Giornata Mondiale contro la Pena di Morte – 10 ottobre -, l’organizzazione per i diritti umani Amnesty International denuncia il grave fatto che numerosi Stati continuano a mettere a morte persone con disabilità mentale e intellettiva, in evidente violazione degli standard internazionali.
In tal senso, la stessa Amnesty ha documentato casi di persone con tali forme di disabilità, condannate o già messe a morte in Stati quali il Pakistan, ma anche nel Giappone e negli Stati Uniti, Paesi in cui, se non verranno riformati i sistemi di giustizia penale, molte altre persone rischieranno l’esecuzione.
«Gli standard internazionali sulla disabilità mentale e intellettiva – dichiara in tal senso Audrey Gaughran, che dirige il Programma Temi globali di Amnesty International – sono importanti salvaguardie a tutela di persone vulnerabili, che non hanno lo scopo di giustificare crimini orrendi, ma che stabiliscono dei criteri in base ai quali la pena di morte può essere o meno inflitta».
«Siamo contrari alla pena di morte in ogni circostanza – sottolinea ancora l’esponente di Amnesty -, in quanto è l’estrema punizione crudele, disumana e degradante, ma nei Paesi che ancora ne fanno uso, gli standard internazionali, compresi quelli che la vietano nei confronti di determinate categorie di persone vulnerabili, devono essere rispettati, in vista dell’abolizione definitiva. Ebbene, quegli standard internazionali stabiliscono senza ombra di dubbio che le persone che soffrono di disabilità mentale e intellettiva non devono subire questa sanzione estrema. E tuttavia, in molti casi, tale condizione non viene accertata durante il procedimento penale».
«Quello che stiamo mettendo in luce oggi – conclude Gaughran – è un altro esempio dell’ingiustizia della pena di morte. Oltre perciò a chiedere ai Governi di tutti i Paesi che ancora usano la pena di morte di istituire immediatamente una moratoria sulle esecuzioni, come primo passo verso l’abolizione, chiediamo anche che assicurino le risorse necessarie a svolgere valutazioni indipendenti e rigorose su chiunque rischi la pena di morte, dal momento in cui viene incriminato fino alla fase successiva alla sentenza».
Alcuni casi specifici vengono poi evidenziati, sempre da Amnesty International, per illustrare il modo in cui venga usata la pena di morte nei confronti di persone con disabilità mentale e intellettiva. Negli Stati Uniti, ad esempio, «Askari Abdullah Muhammad è stato messo a morte il 7 gennaio 2014 in Florida per un omicidio commesso in carcere nel 1980. Aveva una lunga storia di malattia mentale e gli era stata diagnosticata una schizofrenia paranoide. Il 9 aprile, il cittadino messicano Ramiro Hernandez Llanas è stato messo a morte in Texas, nonostante sei successivi test sul quoziente intellettivo avessero dimostrato la sua disabilità intellettiva e dunque l’incostituzionalità della sua condanna a morte. In Florida, Frank Walls e Michael Zack, due condannati a morte con gravi traumi mentali, hanno esaurito tutti gli appelli contro l’esecuzione».
Si passa poi al Giappone, dove, rende noto Amnesty, «molti prigionieri sofferenti per malattie mentali sono stati già impiccati, altri rimangono nel braccio della morte. Hakamada Iwao, 78 anni, condannato a morte per omicidio nel 1968 al termine di un processo iniquo, è la persona che ha trascorso il più lungo periodo di tempo nel braccio della morte, 45 anni! Durante decenni di isolamento completo, ha sviluppato numerosi e gravi problemi di salute mentale. È stato rilasciato provvisoriamente nel marzo 2014 in vista di un possibile nuovo processo».
E ancora, « Matsumoto Kanji è nel braccio della morte dal 1993 e, sebbene i suoi avvocati stiano chiedendo un nuovo processo, potrebbe essere impiccato in ogni momento: ha sviluppato disabilità mentale a seguito di avvelenamento da mercurio e appare paranoico e incoerente a seguito della malattia mentale sviluppata durante la detenzione».
Nel Pakistan, infine, «Mohammad Ashgar, diagnosticato schizofrenico paranoide nel 2010 nel Regno Unito e da qui rinviato nel suo Paese, è stato condannato a morte nel 2014 per blasfemia».
Fonte www.west-info.eu – Mercoledì scorso, il Commissario europeo per la Concorrenza, Joaquin Almunia, ha detto in una conferenza stampa ufficiale: “Me ne importa… io sono una persona. Io non sono una persona con autismo” (I care…I am a person. I am not an autist).
Il suo commento è stato fatto in risposta ad un giornalista che gli chiedeva se avesse a cuore i rischi in un progetto particolare che sta ricevendo aiuti di Stato da parte dell’Unione Europea.
Le parole di Almunia seguono una serie di recenti incidenti in cui leader europei di alto profilo hanno usato i termini “autismo” e “autistico” come insulti. Sulla questione non si è fatta attendere la risposta delle associazioni.
Il Direttore di Autism-Europe, Aurélie Baranger, ha risposto così: “L’autismo non è un insulto. Si tratta di una disabilità. I leader devono astenersi immediatamente da utilizzare l’autismo o qualsiasi altra condizione mentale o fisica come un insulto”. Ha continuato Baranger. “Le persone con autismo in tutta Europa affrontano già molte barriere e discriminazioni. Ulteriori stereotipi negativi nei media portano solo ad acutizzare la stigmatizzazione e le difficoltà“.
Fonte www.vita.it – La sessione conclusiva delle Giornate di Bertinoro per l’economia civile, tradizionale appuntamento promosso da AICCON, si è aperta con l’intervento di Luigi Bobba, Sottosegretario al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, incentrato sull’iter legislativo della riforma del Terzo settore. “L’intento del Governo è semplice ma allo stesso tempo difficile da raggiungere. Semplice perché si vuole mettere mano in termini organici alla Riforma affinché effettivamente ci si ispiri all’ultimo comma dell’art. 118 (principio di sussidiarietà). In accordo con il Ministro Poletti, chiederò di poter mettere al lavoro piccole Task Force che possano preparare le bozze dei decreti legislativi che saranno necessari per dare concreta attuazione operativa alla Riforma”.
Due sono i punti salienti della Riforma: il tema della misurazione degli “impatti sociali positivi” che le imprese sociali sono chiamate a generare e il Servizio Civile universale. L’auspicio è che entro il 2017 il Governo sia in grado di coinvolgere oltre 100mila giovani “un grande vivaio di vocazioni al servizio alla comunità oltre che opportunità di avvicinamento ad un percorso professionale. Non a caso, in accordo con le Regioni ci sarà una sperimentazione unica in Europa di utilizzare il Servizio Civile anche dentro al percorso di Garanzia Giovani. Si tratta di un investimento in termini di valore umano e di esperienza della vita delle persone”.
Inoltre, ha concluso Bobba: “L’attenzione della riforma alle imprese sociali nasce dall’urgenza e nella necessità di dar vita ad una stagione di sviluppo di imprese sociali – non solo nella forma di cooperative sociali. L’opportunità rappresenta da questa riforma è nelle nostre mani, tanto più sarà condivisa tanto più sarà efficace”.
Fonte www.disabili.com – I dati del MIUR parlano di circa 110 mila insegnanti di sostegno e di circa 210 mila alunni con disabilità. Sarebbe perciò rispettato il rapporto previsto, di 1:2. Le famiglie e le associazioni, però, segnalano che all’inizio di ogni anno scolastico gli alunni con disabilità sono molti di più rispetto alle previsioni del MIUR registrate al momento delle iscrizioni.
Non solo: molti docenti di sostegno sono precari e troppo spesso privi del titolo di specializzazione. A ciò si aggiunge il fatto che ogni anno si registrano ritardi importanti nell’assegnazione delle risorse annuali e, spesso, le nomine subiscono modifiche dopo alcuni mesi a causa dei meccanismi legati all’aggiornamento delle graduatorie delle scuole. Molti docenti, infatti, sono stati in queste settimane assunti fino ad avente diritto e, quando le graduatorie definitive saranno pronte, saranno sostituiti da altri insegnanti, che risulteranno in posizione migliore per le assunzioni. Tutto ciò si ripercuote significativamente sulla qualità della didattica, che viene interrotta e continuata da altri. Né sono pochi i disagi legati alle relazioni instaurate che vengono sospese. Altri docenti dovranno ricominciare daccapo, ricostruendo un delicato dialogo educativo che può rafforzarsi solo nel tempo.
A subire principalmente il peso di questa situazione, purtroppo, sono gli alunni. Tra tagli e ritardi nelle nomine, dunque, tra mancanza di personale specializzato e avvicendamenti, sono molte le famiglie di studenti con disabilità che hanno vissuto anche l’avvio di quest’anno scolastico con tante difficoltà. Non sono mancate anche le segnalazioni di ritardi nel completamento dell’iter della certificazione, in mancanza del quale i dirigenti scolastici non possono nemmeno richiedere le risorse di sostegno.
Non pochi genitori continuano a rivolgersi ai tribunali amministrativi per ottenere la deroga alle ore assegnate. Anche quest’anno in tutta Italia vengono segnalate situazioni in cui le ore assegnate sono poche, in cui non vi sono insegnanti di sostegno o non si trovano insegnanti specializzati. Quasi sempre, inoltre, quando il docente di sostegno c’è, è un nuovo docente, che sarà presente forse per poco.
Non solo: molto spesso bambini e ragazzi con disabilità non hanno ancora nemmeno la presenza dell’assistente loro assegnato. Si registrano perciò casi in cui una mamma rimane in classe, perché il figlio necessita di assistenza o in cui un papà lascia il lavoro per sostare ogni giorno in macchina fuori della scuola perché il figlio potrebbe aver bisogno di assistenza.
Le difficoltà, che non sono poche, permangono. Qualcuno scrive: abbiamo mandato diffida all’ufficio preposto perché il diritto di nostro figlio venga tutelato. Ma la domanda è: con quale spirito possiamo mandare a scuola il nostro ragazzo?
Per approfondire
Leggi l’articolo “ Confermato: ancora tagli all’Istruzione”
Leggi l’articolo “Tagli, rinunce, cambi. Ecco i “perché” dei ritardi del sostegno secondo il Miur”
Fonte www.superabile.it – Per chi è cieco l’ospedale può essere un labirinto inestricabile: dalla macchinetta che eroga il foglietto con il numero della prenotazione allo sportello ai percorsi per raggiungere gli ambulatori, non c’è nulla che lo aiuti. Ed è quanto emerge da una ricerca, condotta tra gennaio e settembre 2014, su 814 strutture in Italia: la maggior parte degli ospedali non ha ancora installato mappe a rilievo o percorsi tattili.
Inoltre, solo il 36% delle strutture contattate ha un flusso prioritario per pazienti con disabilità presso i servizi ambulatoriali e i day hospital con erogatori di numeri dedicati e solo il 19% ha un punto unico di accoglienza. Anche la presenza in Pronto Soccorso di locali e percorsi specifici per pazienti con disabilità cognitiva e intellettiva sembra essere un miraggio.
La ricerca è stata promossa dalla cooperativa sociale Spes contra spem e dalla Fondazione Ariel in partnership con l’Osservatorio nazionale sulla salute nelle regioni italiane dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma. I primi risultati sono stati presentati a Milano durante la giornata di studio dal titolo “L’ospedale discrimina? L’accoglienza in ospedale delle persone con disabilità” (leggi qui la nostra news).
“L’assenza, nella maggioranza dei nostri ospedali, di percorsi clinico assistenziali per le particolari esigenze delle persone con disabilità non solo contravviene a un principio di giustizia ma ha ricadute sulla qualità delle cure in generale”, afferma Nicola Panocchia, dirigente medico del Policlinico Gemelli di Roma. Da poco più di un anno esiste la Carta dei diritti delle persone con disabilità in ospedale, curata dalla cooperativa sociale onlus Spes contra spem e già adottata dal Policlinico Gemelli di Roma e dall’ospedale Asl Alto Vicentino. È composta da 14 articoli, che sanciscono diritti imprescindibili e forniscono esempi concreti delle esigenze specifiche dei pazienti con disabilità, molto spesso non in grado di esprimersi, di comprendere, di comunicare. Soluzioni spesso di ordine organizzativo e pratico a cui si aggiungono attenzione e flessibilità: percorsi specialistici, ambienti più tranquilli, tempi personalizzati per visite ed esami diagnostici, la presenza del familiare o caregiver, sono alcuni esempi della sfida della personalizzazione delle cure e dei percorsi di assistenza
Per approfondire
Leggi l’articolo “Diritti di cura. Se il paziente con disabilità è un paziente scomodo”
Fonte www.personecondisabilita.it – Come dichiarato da Antonio Malafarina: “Le persone con disabilità in ospedale non hanno maggiori diritti bensì gli stessi diritti cui rispondere con soluzioni personalizzate, come per tutti”. È l’accomodamento ragionevole il punto focale dell’intervento che Luisa Bosisio Fazzi, consigliere Ledha, ha tenuto lo scorso 3 ottobre durante il convegno “ L’ospedale discrimina? L’accoglienza in ospedale delle persone con disabilità”, promosso da Fondazione Ariel e dall’associazione “Spes contra spem”.
Durante la giornata è stata presentata anche la “Carta dei diritti delle persone con disabilità in ospedale” elaborata da “Spes contra spem”. “Una carta scritta in modo encomiabile – sottolinea Luisa Bosisio Fazzi – che porta in rilievo purtroppo la necessità per le persone con disabilità di dover ricorrere a Carte, appunto, e Convenzioni che rammentino alla comunità (in questo frangente quella sanitaria) il loro diritto ad usufruire degli stessi diritti che per ogni cittadino è naturale”.
Diritti che vengono sanciti nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (articolo 25) e nella Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità (articolo 25) in cui si chiede “ai professionisti sanitari di fornire alle persone con disabilità cure della medesima qualità rispetto a quelle fornite ad altri”.
Già, ma in che modo si possono tradurre in azioni concrete questi principi? Il primo tema da affrontare è quello dell’accessibilità. “Un principio generale ma anche un mezzo potente per la partecipazione e l’inclusione”, sottolinea Bosisio Fazzi. Ma rendere accessibile un ospedale non significa solo rimuovere le barriere architettoniche, ma anche garantire alle persone con disabilità la possibiltà di accedere al sistema di informazioni e comunicazioni, nel sistema di trasporto privato e pubblico. Per non parlare dell’accessibilità e dell’usabilità delle strumentazioni sanitarie come per esempio la poltrona del dentista, il lettino ginecologico, il macchinario per la mammografia, le strumentazioni oculistiche. Accessibilità significa anche prestare attenzione alle esigenze dei pazienti con disabilità intellettive, relazionali e/o comportamentali.
Per trovare una risposta alle esigenze delle persone con disabilità in ospedale non è necessario stilare un rigido elenco di azioni, indicazioni e prassi da seguire “che, pur con l’obiettivo di garantire la qualità dei servizi, finirebbero per perseguire una accessibilità per tutti impossibile a priori da determinare”, spiega Luisa Bosisio Fazzi. La soluzione – aggiunge – viene attraverso il cosiddetto accomodamento ragionevole. “Ovvero le modifiche e gli adattamenti necessari e appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo. Adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali”, spiega Bosisio Fazzi che sottolinea: “Accomodamento ragionevole non significa abbassare gli standard di qualità o la rimozione degli standard di qualità operativi”.
Accomodamento ragionevole può essere la modifica di un protocollo, l’abbattimento di una barriera architettonica, una ristrutturazione, un adeguamento di una prassi o di un percorso. Ma per riuscire a realizzarlo è essenziale che il paziente con disabilità (o il suo tutore) sia coinvolto in questo processo di identificazione e valutazione del possibile accomodamento. “ Poiché le limitazioni poste dalle differenti disabilità varia ampiamente tra i pazienti e nello stesso tempo le funzioni di in un sistema ospedaliero variano altrettanto, possiamo affermare che un efficace accomodamento deve essere determinato caso a caso – conclude Luisella Bosisio Fazzi -. Inoltre una dose di creatività e flessibilità sono strumenti importanti nel processo di incontro tra le necessità dei pazienti con disabilità e quelle della struttura ospedaliera”.
Le buone pratiche non mancano. A partire dal progetto DAMA (attivo all’interno dell’ ospedale San Paolo di Milano, a Mantova e a Varese) divenuto negli anni un’unità operativa in grado di offrire una risposta rapida ai problemi medici e chirurgici di persone con grave disabilità, in particolare con deficit comunicativo.
Per approfondire
Consulta la Carta dei diritti